LA PRODUZIONE DI MESSAGGI WHATSAPP NEL PROCESSO PENALE
Corte di Cassazione, V Sezione penale, nella Sentenza del 25 ottobre 2017, n. 49016: “È legittimo il provvedimento con cui il giudice di merito rigetta l’istanza di acquisizione della trascrizione di conversazioni effettuate via ‘WhatsApp’ e registrate da uno degli interlocutori, in quanto, pur concretandosi essa nella memorizzazione di un fatto storico, costituente prova documentale, ex art. 234 cod. proc. pen., la sua utilizzabilità è, tuttavia, condizionata all’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione, al fine di verificare l’affidabilità, la provenienza e l’attendibilità del contenuto di dette conversazioni”.
Da un lato, pertanto, la Cassazione riconosce ed ammette astrattamente che la conservazione delle chat di WhatsApp effettuata da uno dei partecipanti alla conversazione è una forma di registrazione e di documentazione di un fatto storico e che, per questo motivo, può, in linea di massima, essere validamente acquisita in processo come prova documentale. L’art. 234 – comma 1- del Codice di Procedura Penale difatti stabilisce che: “È consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”.
D’altra parte, però, la Suprema Corte evidenzia che la validità probatoria della trascrizione degli scambi di messaggistica è concretamente subordinata al ricorrere di un requisito particolare, ossia all’acquisizione processuale anche del supporto telematico o figurativo contenente la conversazione (nel caso di specie il telefono cellulare).
La sola trascrizione del contenuto delle conservazioni rappresenta, infatti, per la Cassazione uno strumento con funzione unicamente “riproduttiva del contenuto della principale prova documentale”, mentre è di fondamentale importanza, come emerge dai motivi posti a sostegno della decisione, la possibilità di verificare, oltre al contenuto, anche l’affidabilità della prova. E ciò può essere effettuato attraverso l’esame diretto del supporto che contiene tale memorizzazione di fatti così da verificare tanto la riconducibilità dei messaggi al loro effettivo autore e mittente, quanto l’attendibilità intrinseca del loro contenuto.
Nella sentenza in oggetto la Corte di Cassazione, peraltro, non specifica con quale modalità i messaggi scambiati via WhatsApp possano essere concretamente acquisiti in giudizio a fini probatori.
A tale riguardo, sarà necessario fare riferimento alle disposizioni dettate in materia dalla L. 48/2008, con cui è stata ratificata in Italia la Convenzione di Budapest del 23 novembre 2001 in materia di criminalità informatica, e che, tra le altre, ha apportato delle importanti modifiche al Codice di Procedura Penale.
A seguito di tali novelle legislative, quindi, con l’espressione “prova informatica” si fa ufficialmente riferimento a qualunque informazione che può integrare un elemento di prova e che sia memorizzata o trasmessa in un formato digitale.
Nel caso in cui sia necessaria l’acquisizione al processo di una prova di questo tipo sarà quindi necessario avvalersi di tecniche specifiche fondate sui principi di inalterabilità della prova e conformità con l’originale sanciti in generale dalla L. 48/2008 sopra citata.
In presenza di una prova informatica da acquisire in processo sarà dunque necessario adottare delle misure tecniche che consentano di assicurarne la conservazione e di impedirne l’alterazione. In aggiunta a ciò, se possibile, si dovrà procedere anche alla duplicazione del contenuto digitale su adeguati supporti, attraverso una procedura che permetta di assicurare la corrispondenza della copia all’originale, nonché la sua immodificabilità nel tempo.